Il paesaggio è lo specchio dell'anima, ma non sempre l'anima mostra il lato migliore. Proverò a infilare in questo blog le cose migliori e più interessanti che mi sono capitate.
E' stata annunciata da pochi giorni la presenza dell'autore al prossimo
Festival della Letteratura di Mantova
UN ACCENNO ALLA TRAMA - Un ragazzino
di quindici anni, affascinato dallo spazio e interessato ad affrontare nella
propria adolescenza le domande sull’esistenza, si confronta con la storia
personale del padre che non c’è più, ripercorrendola in una lettera a lui
indirizzata ritrovata postuma. In essa domina la figura di Veronika, la Ragazza
delle Arance, che in modo facilmente intuibile si collega con il proprio
presente, viaggiando per così dire, come ormai consolidato in Gaarder, nel tempo e nello spazio.
ALCUNE IMPRESSIONI - Non amo
particolarmente la costruzione della trama in Gaarder e alcuni passaggi dello stile (quella sorta di - come dire - didascalismo...), ma resto sempre
affascinato da come l’autore sappia colpire infallibilmente certe corde… personali, che vanno diritte al cuore (gli sguardi dell'amore, il pensiero che si impadronisce di noi, quasi più degli istinti).
La lettura è abbastanza
scorrevole ed è facilmente accostabile a quella del ben più celebre “Il mondo
di Sofia”: un padre presente pur nella sua sostanziale assenza, lo spazio come
proiezione dell’origine e della dimensione primigenia della vita, le grandi
domande (in senso lato filosofiche) sulla ricerca di un senso da dare alla
propria esistenza e a quella di chi è a noi legato o dal sangue, o dall’amicizia, o, soprattutto, dall’amore... quell’amore
che scocca sempre a partire da uno sguardo.
(Ri)Percorrere la storia di Brian Clough è prima di tutto un salto nei Settanta, in quella atmosfera così poco amichevole ma (paradossalmente) allo stesso tempo rassicurante, condita da un buon pizzico di realistico linguaggio scurrile, che ben esemplifica il romanzo di ciascuno di noi...
... di noi che, specie da giovani, sogniamo sempre in grande, di noi che veniamo fagocitati dal potere del Pallone, emblema supremo dell'affermazione di sè ad ogni costo e di un successo spesso destinato ad essere passeggero, magari tanto più entusiasmante quanto ci può regalare brevi ma intensi momenti di gloria. Se poi l'eredità o il peso da sopportare sono troppo grandi (Don Revie) non bastano illuminazione e talento (che prima o poi riemergeranno): ci vuole anche tanta fortuna.
Oggi, lunedì 31 marzo è stato a tutti gli effetti un bel lunedì di primavera, e per la prima I non c’è stato niente di meglio che dedicarsi ad un’uscita alla scoperta delle risorgive di Montorio e di tante storie, piccole e grandi, moderne e antiche, collegate a questo territorio.
Accompagnati dalla prof.ssa Brugnoli e dal prof. Guerreschi, ma soprattutto allietati dalla preziosa guida di Mario Patuzzo (per i curiosi - visitate http://www.mariopatuzzo.it/), i nostri “venticinque lettori meno uno” (ai box per un male di stagione) hanno percorso un itinerario naturalistico attraverso (letteralmente) quelle celebri risorgive che ai tempi dei Romani hanno in qualche misura permesso alla nostra Verona di completare da est quella rete idrica che ne ha garantito (insieme anche all’altro celebre acquedotto proveniente dall’occidentale Valpolicella) lo sviluppo urbano giù dal colle di San Pietro, colle sul quale si collocano le più antiche origini della città.
I nostri ragazzi di prima I hanno potuto così scoprire (e toccare con mano!) come da vallate antiche, come in questo caso la Valpantena un tempo sede di numerosi culti pagani legati soprattutto agli elementi naturali (Grezzana e le Grazie, Marzana e Marte, Vendri e Venere), o come la Val Squaranto stessa, da sempre provenga per via superficiale (attraverso ruscelli e torrenti) o sotterranea (attraverso le risorgive influenzate dal gioco degli strati di roccia impermeabile e non) un elemento alla base di tutta la vita: l’acqua.
E’ stato interessante poi scoprire come le “Loze” (ovvero la loggie degli Scaligeri a Montorio) abbiano rappresentato un celebre luogo di svago e divertimento ben noto ai più ricchi uomini medievali italiani e non, a tal punto da ispirare forse Boccaccio per la sua novella dedicata a Florio e Biancifiore e magari da entrare (mescolandosi, in verità, alla celebre storia d’amore di matrice orientale di Piramo e Tisbe) nell’orizzonte di Shakespeare, per dar vita, nella lontana Verona, all’aspra lotta tra “Montecchi e Cappelletti”.
E dove alcune delle acque delle risorgive di Montorio, dopo essere emerse in numerosissimi rivoli (legati perciò anche all’antico Fiumicello che puntava invece verso l’attuale Campomarzo/zona cimitero Monumentale), dopo aver garantito in passato l’energia necessaria per la produzione tessile prima e favorevole ad una certa vocazione industriale (Montorio “piccola Manchester”) e dopo essersi allargate in pittoreschi specchi (da quello attiguo e addirittura sottostante l’antica Chiesa di Santa Maria ai piedi della collina fino al vasto Fontanòn più a valle), confluiscono (per convogliarsi verso l’Adige attraverso il Fibbio e il canale artificiale Sava), proprio lì vicino è stato possibile godere di un piacevole momento di gioco e di ristoro.
Ma anche scoprire un ultimo curioso “incrocio”, con la presenza in loco della sede dell’Unione Ciclistica Montoriese, società sportiva che ha in qualche modo come protagonista un “ciclista della Val Squaranto”, reso celebre in questi giorni dal video di Frank hi nrg, con una hit musicale, “Pedala”, in stile rap, che avrà il privilegio di essere la sigla ufficiale dell’ormai non lontano Giro d’Italia 2014.
Ospito volentieri in queste colonne virtuali il report dell'amico e maestro Faramir sull'ultimo #venerdìpub
The final cut by Faramir
La cornice è quella ‘classica’ del pub Hartigan’s, teatro dei primi ritrovi del Verona Lost Group, prima
incarnazione del #veNERDì – ormai sette anni fa: un eone che fa impallidire i
proverbialmente pazienti Grandi Antichi di HPL. La composizione del gruppo è il
‘sestetto base’ Faramir, Luca G, il Mojo, Jacopo, Francesca e il neoinserito nella
Twitter Nation Valerio. La
conversazione fluisce con l’agio del buon sidro seguendo percorsi tortuosi e
affascinanti, come è consuetudine di questi ritrovi, spiraleggiando (come il
Segno Giallo?) dal passato al futuro e dagli auspici ai ricordi.
I ricordi sono quelli, freschissimi, della prima stagione di
True Detective, a mani basse la
miglior serie tv del 2014, anche se l’anno è lungi dall’essere finito. Una
serie straordinariamente bella, per scrittura, cura del dettaglio, recitazione,
regia e profondamente ‘sfidante’ dal punto di vista etico. Groundbreaking, direbbero gli anglofoni – talmente di rottura da
ricordare la madre di tutte le serie di culto (e quella che per molti di noi è
stata la prima ossessione televisiva), quel Twin Peaks che è accomunato a True Detective da una storia
archetipica, la più antica – a dire di un ottimo
articolo – perché è quella che narra la sfida tra Luce e Ombra. L’auspicio,
verbalizzato da chi scrive – ma senz’altro una pia illusione – è quello che la
seconda stagione di True Detective (che avrà storia e attori diversi, anch’essa
autoconclusiva) possa dare una chiusura alle vicende di Twin Peaks, lasciate
senzarisoluzione (almeno quella meta- o
parafisica) da David Lynch e Mark Frost ormai 25 anni fa... il tempo giusto per collimare
con la profezia di Laura Palmer nella Loggia Nera durante il celeberrimo sogno
di Cooper.
Un omaggio, non un sequel o una conclusione, fu Dual Spires (ancora una spirale),
puntata 5x12 di Psych, telefilm
senza pretese, tra investigazionee
comedy, che operò una gustosissima rimpatriata di molti degli attori della
serie lynchiana per un episodio di sicuro richiamo per tutti i peakers mai disintossicati. Lo stesso
Psych, più di recente, ha omaggiato un altro classico da inguaribili nerd come Signori, il delitto è servito (Clue, 1985), commedia con omicidi basata
sul gioco da tavolo Cluedo. La rimpatriata, nella puntata 7x05 (Psych 100), ha coinvolto meno volti noti
del film originale, ma riconoscibilissimi, come quello di Christopher Lloyd
(che non ha bisogno di presentazioni) o quello di Leslie Ann Warren, che nel
film interpretava la Signorina Scarlet, un ruolo – apprendiamo da un’accurata
ricostruzione – che avrebbe potuto interpretare Carrie Fisher, non fosse
stata all’epoca persa in una spirale di cocaina, che si narra le concedesse
pochi momenti di lucidità anche durante le riprese di Star Wars.
Ma True Detective non evoca solo film e telefilm, bensì
anche libri – e non libri qualsiasi. Con citazione fin dalla seconda puntata,
cosa che ha mandato in sollucchero coloro che, come chi scrive, cercano indizi
di misteri misteriosi e possibilmente soprannaturali, True Detective ha
esplicitato il nesso con uno dei più classici pesudobiblia della letteratura fantastica, Il Re in Giallo, opera teatrale che porta alla follia chi lo legga
fino in fondo e che fa da filo conduttore, oltre a prestare il titolo, ad una
raccolta di racconti di fine ottocento di R. W. Chambers. Oggi edito dalla
piccola casa editrice lovecraftiana Hypnos, nicchia di orrore soprannaturale
nel panorama editoriale italiano, ma ‘toccato con mano’ al pub in una preziosa
prima edizione Fanucci, Il Re in Giallo viene ritenuto da Lovecraft in persona
uno dei suoi più significativi precursori, citandolo come riferimento nel
saggio L’orrore soprannaturale in
letteratura. Questo saggio, vera e propria bussola per gli appassionati,
annovera anche La casa sull’abisso
di William Hope Hodgson, autore noto per le sue narrazioni marinare (il suo Naufragio nell’ignoto è stato di
recente ristampato in Italia da Addictions-Magenes). Perché citarlo? Perché
rischiare di perdersi nel maelstrom (gorgo spiraleggiante
raccontato anche da Poe... e che diede il nome al Miles Straume di Lost)? Perché di mare scrive anche Horatio Clare, autore inglese che ha
incrociato la nostra strada sul campo di football australiano dei Verona
Wolverines, e che con il suo ultimo Down
to the sea in ships sta riscuotendo un meritato successo.
Che epigoni ha avuto il Re in Giallo, o comunque il filone
latamente lovecraftiano? Sicuramente il rappresentante contemporaneo più maturo
della letteratura weird è Thomas
Ligotti, poco concosciuto in Italia, tanto che solo il suo I canti di un sognatore morto è stato pubblicato qui da noi, da
quella Elara che ha un sito che sembra
uscito dritto dritto dal 1997, ma a cui dobbiamo una meritoria opera di
diffusione della letteratura fantastica meno á la page, anche grazie all’edizione italiana della rivista Fantasy & Science Fiction.
Al successo di True Detective ha contribuito in maniera
decisiva la recitazione di Matthew McCounaghey, capace di trasformarsi in
maniera sorprendente, come nel Dallas
Buyers Club che gli è valso l’Oscar o nella breve apparizione in TheWolf of Wall Street dove ruba la scena all’eterno secondo
(limitatamente agli Oscar, beninteso) Leonardo Di Caprio. Si discute molto su
questa seconda giovinezza artistica di McC, quasi un Secondo
Avvento di un attore che forse semplicemente non aveva trovato copioni
adeguati alla sua statura.
Gli autori fanno tanto, e di Nic Pizzolatto – sceneggiatore
di True Detective – il romanzo Galveston
si è guadagnato rapidamente la cima della pila di lettura di molti di noi. A
Damon Lindelof molti invece ancora non perdonano il finale di Lost – del quale
però ha recentemente parlato in pubblico, dopo un lungo radio silence – alla rimpatriata con una buona fetta del cast al
panel inserito nel programma della PaleyFest.
Damon Lindelof non è coinvolto nella produzione dell’Episodio VII di Star Wars, che
apprendiamo fosse stato già scritto da George Lucas (come parte di
un’ennealogia) fin dai tempi della trilogia originale, ma ‘tenuto nel cassetto’
perché tecnicamente irrealizzabile. Oggi il giocattolo è in mano a J.J. Abrams
ma – come per quello cui mette mano Lindelof – lo scetticismo prevale
sull’ottimismo. Del resto, non solo da trekkies
integralisti sono piovute critiche su Star
Trek Into Darkness, con Benedict Cumberbatch nei panni di Khan. Lo Sherlock della BBC è stato di recente
in 12 anni schiavo e le sue capacità
attoriali sono comunque fuori discussione, tanto che la sua voce dà allo Smaug
di The Hobbit una profondità – a
dire dei critici di quest’altra, stiracchiatissima trilogia – immeritata. Qui
Cumberbatch incontra, nei panni di Bilbo Baggins, il ‘suo’ Watson, Martin
Freeman, che ècoinvolto nella
realizzazione di una imminente serie televisiva tratta da Fargo dei fratelli Coen. A proposito di stiracchiamenti.
Seconde o successive stagioni che stiamo aspettando più o
meno con ansia ce ne sono varie, da Broadchurch
a The Fall, da Bates Motel a Game of
Thrones. A proposito di quest’ultima saga, è ormai un termine di paragone
ineludibile quando si parla di (fanta)storia e di abbondanza di grazie maschili
e femminili. Vikings non fa
eccezione, ma evoca anche il lisergico Valhalla
Rising, di Nicolas Winding Refn, con un taciturno Mads Mikkelsen. L’attore
danese è l’ultima incarnazione di Hannibal Lecter, nel prequel tv Hannibal alla trilogia tratta da Thomas
Harris, alla quale non viene comunemente ascritto quel capolavoro del 1986 che
è Manhunter: frammenti di un omicidio,
film genuinamente agghiacciante di Michael Mann, in cui lo psichiatra cannibale
era interpretato da Brian Cox. Cox presta, coincidenza significativa
(significativa perché ne abbiamo parlato senza saperlo), la voce al sistema
operativo Alan Watts in Lei, film
ancora nelle sale che chi ha visto reputa straordinario.
Questa caccia alle citazioni, alle coincidenze
significative, agli indizi nascosti in piena luce, fa il paio con quel gioco –
di cui in pochi sapevamo – che risponde al nome di Geocaching e che è un misto tra caccia al
tesoro e bookcrossing, tra analogico e digitale, e che potrebbe riservare
sorprese – prevalentemente paesaggistiche – per chi lo praticasse.
La spirale si riavvolge su percorsi noti, come i libri di
Stephen King – l’ultimo dei quali, Doctor
Sleep, sequel di Shining, è in
corso di lettura sonnacchiosa da parte di qualcuno di noi – o i documentari che
ne analizzano da prospettive ‘laterali’ gli adattamenti – come il delirante Room 237 – o i libri che lo stesso Re
(non in giallo) consiglia – come Dominion
di C.J. Sansom, variazione sul tema ucronico della vittoria nazista nella
Seconda Guerra Mondiale – o quello che i suoi figli scrivono, come Joe Hill e
il suo recente NOS4A2, per non
parlare del fumetto che sceneggia, Locke
& Key, la cui prima miniserie si intitola (guarda caso – nulla avviene a caso, direbbe Locke) Benvenuti a Lovecraft, o altre rotte
apparentemente circolari, come quella dello Snowpiercer, treno-arca tra i ghiacci rappresentato dal film
coreano ispirato al fumetto francese Transperceneige.
E potremmo andare avanti a lungo, ma Si alza il vento ed è tempo di prendere il volo, con la fantasia
del protagonista del nuovo film di Miyazaki... ma auspicabilmente non con le
prospettive dei piloti dei suoi aerei.
Non li abbiamo citati, ma tra nascondigli nel terreno e
spirali aeree, c’è un verso di una canzone dei Pink Floyd, dalla quale – e
dall’album omonimo – mutuiamo il titolo di questo post, che ben sintetizza il
percorso che abbiamo condiviso, e che merita di essere posto a chiusa del
modesto contributo da ospite che chi scrive, grato, ha dato a questo blog.
And far from flying high in clear blue skies
I'm spiralling down to the hole in the ground where I hide.
Sette milioni di 35enni vivono ancora a casa con i genitori. Ma le cose cambieranno, dopo l'esame di maturità.
— giggi (@giggidelirio) 10 Febbraio 2014
Poco più di un anno fa, a fine estate 2012, sembrava affermarsi sempre di più un nuovo termine inglese. Ricordate le questioni sull'utilizzo di "choosy", nel significato di 'difficile da accontentare, schizzinoso', sfruttato dai media per fotografare i giovanissimi e i giovani italiani?
Insomma, dopo il tempo dei "bamboccioni", rilanciato dal compianto Tommaso Padoa Schioppa, e passando poi attraverso i tempi della crisi scoppiata nel 2008, senza però dimenticare la cultura vintage legata "tempo delle mele" ("La boum" francese, ovvero l'adolescenza che si scatena), ecco un rinnovarsi di terminologie (ma anche di dati, ahinoi...) atte a sottolineare un'apparente inadeguatezza delle nuove generazioni.
E se fossero invece gli adulti sempre meno abili a trovare la chiave giusta per interpretare il presente e perciò sempre più incapaci di essere punto di riferimento e guida per i più giovani?
"Con il tempo e con la paglia maturano le nespole" recita un celebre adagio, derivante dall'uso contadino di far maturare a lungo tali frutti (che non possono essere mangiati appena raccolti) in contenitori ricoperti di paglia.
Occorre aver pazienza con i giovani e prima o poi la soluzione arriverà. Meditiamo, "grandi", meditiamo.
Ci sono lungadigi e lungadigi.
Mi riferisco a Verona ovviamente, visto che anche trentini e polesani potrebbero avere voce in capitolo.
In provincia è meglio parlare di "alzaie" se l'argine è ancora naturale, come ad esempio in bassa Valpolicella; in città, invece, ci sono lungadigi intitolati alle cose, come ad esempio (tra i vari) le Rigaste (Redentore e San Zeno), toponimo di etimo discusso che probabilmente ricorda i pali che impedivano ai canali secondari, alle rogge insomma, di essere invasi da materiali sgraditi trasportati dalla corrente fluviale. Ci sono poi lungadigi intitolati alle persone più o meno famose, come ad esempio (tra le varie persone, in questo caso, meno famose) lungadige Bartolomeo Rùbele, che collega due storici ponti cittadini: ponte Nuovo, già ponte del Popolo, e (il) ponte (delle) Navi, nei pressi della vecchia dogana cittadina.
La storia di Bartolomeo Rùbele prima o poi dovevo raccontarvela, perché è una di quelle storie che se la leggi a diciotto anni e sei ancora alla scoperta di segni della presenza del passato in città, non ti può che rimanere impressa. Un po' come le scorrerie dei giovani Angelo Dall'Oca Bianca e di Berto Barbarani in una Verona di fine Ottocento, primi Novecento che cominciava a modernizzare il suo volto tutto conventi e caserme.
Dopo tanto tempo, la storia era rimasta lì, in archivio, finché Jacopo Prisco...
... non mi ha fornito l'occasione per ricordare e di fare un salto ancora più indietro nel tempo, precisamente nel 1757, quando in mezzo a ponte Navi campeggiava una torre e le piene dell'Adige non erano ancora state arginate (in modo speriamo definitivo) dai possenti muraglioni che hanno appunto permesso la nascita del toponimo "lungadige". Era la Verona veneziana dei "molinari" e di tanti altri umili lavoratori come l'operaio della dogana Bartolomeo Rubele, nativo della Lessinia.
Questa è la sua storia, storia che fonti più...
Nel 1757 una grossa piena l'avea travolto el ponte isolando la tore che colegàa le do arcade. Du done e du buteleti restà imprigionadi nel ponte i ris-ciava de negàrse, ma un fachin dela Dogana, Bartolomeo Rubele, el s'à butà nel' Adese con l'aiuto de soghe e sigagnole l'è riussì a salvarli. El popolo in festa l'à volù donarghe un bel mucio de schei, rifiutadi dal Rubele (soranome el leon dela Valpantena). A quel eroe ghe stà intitolado un lungadese.
Nella torre ormai isolata e pericolante fra i vortici erano rimaste due donne e due fanciulli. Benché si facessero offerte di denaro, nessuno osava esporsi al pericolo, anche per la quasi impossibilità di appoggiare scale. Giunto a caso, Bartolomeo Leone detto Rubele si offrì; unì con corde le scale, gettò spago e funi nella torre, perché le donne aiutassero a tirare e poi assicurassero la scala: ottenuta da un sacerdote l'assoluzione, sale intrepido, benché le scale pieghino per rilassamento delle corde: giunge alla torre, benda gli occhi alle donne e legatele sui fianchi, tiene stretta la fune e le fa scendere ad una ad una. Poi mette i singoli fanciulli in doppio sacco e li cala con le corde tenute all' altro capo da qualcuno verso San Paolo. Scende salvo, ricusa il premio offertogli dal conte Spolverini e sfolla applaudito. Verona riconoscente gl'intitolò il Lungadige destro dal ponte Navi al Nuovo, dirimpetto a quello del re Teodorico. Giulio Sartori dipinse il fatto su una tela che si conserva malandata al museo.
Nella scuola è periodo di scrutini.
In occasione del primo giro di boa, il primo quadrimestre, vengono stesi i primi bilanci, si operano le prime somme, nell'ottica di aggiustare il tiro e di raddrizzare la barca.
Ciò si è sempre fatto e si continuerà a fare, sempre che i tagli ai fondi d'istituto non comincino ad arrivare così in profondità da intaccare anche le attività intrinseche e più strettamente collegate alla funzione docente.
Ciò che invece è cambiato negli anni è il clima in classe.
In verità in aula l'insegnante non ha vita facile...
... ma tutto sommato si trova a suo agio. Ormai sa come difendersi, nel caso che viva la lezione come una guerra; sa come muoversi, nel caso viva le ore di lavoro come una sfida; sa come intrattenere, nel caso viva il rapporto con gli alunni tanto con serietà quanto con allegria. La mia impressione, però, ora che sono passato quasi inaspettatamente “dall'altra parte della barricata”, è che rispetto a una volta il clima in classe sia un po' quello di una gita lunga circa nove mesi, o meglio i poco più di duecento giorni che sanciscono la regolarità di un'annata scolastica.
Oggi le gite forse non hanno quasi più ragione d'essere. Sono costose (il trasporto soprattutto), spesso inutili (in quel luogo i ragazzi ci sono già stati, magari due-tre volte) e faticose (la sorveglianza diventa... letteralmente... di ventiquattrore su ventiquattro).
Un tempo (ego, laudator temporis acti) il cosiddetto viaggio d'istruzione era la classica valvola di sfogo, occasione mediante la quale si univa l'utile (la cultura, la conoscenza) al dilettevole (una migliore socializzazione con compagni e insegnanti, una maggiore libertà rispetto alla vita interna all'istituto scolastico).
Oggi, invece, sembra essere ogni giorno una gita, per quanto riguarda il concedersi o il prendersi qualche licenza.
Certi giorni, addirittura, mi chiedo se in classe gli alunni non mi scambino per un arbitro di calcio.
“Guardi prof, mi sta cosando per la maglia”.
E io non so più se tirare fuori il cartellino giallo, fischiare simulazione, o cogliere l'occasione per spiegare un po' di grammatica. Felice per il giusto uso del congiuntivo (eh sì, spesso gli alunni ci azzeccano col congiuntivo, specie quando lo sbaglia il prof) devo combattere però la mia quotidiana battaglia contro l'uso del generico 'cosa' e di tutti i suoi derivati e non cedere alla piattezza (quando non alla scurrilità) del loro lessico di alta frequenza. E poi arriva, colpo di (dis)grazia, la ricreazione in cortile, la mensa e tutto ciò che contiene il lungo elenco di compiti che do per noto.
Insomma una lenta e inesorabile mutazione genetica, con la quale Darwin e Lamarck sembrerebbero andare a nozze, anche se poi, a ben vedere, come nel film "Idiocracy" a essere premiati non sembrano proprio gli adattamenti di maggiore... qualità.
attivare i sottotitoli
Ma sopravviverò e cercherò di fare il bravo: ve lo prometto!