Santa Maria in Valena (Valpolicella, VR)

giovedì 28 marzo 2013

(FUORI) SERIE TV 6


A Cristiano Dalpozzo il compito di aprire e chiudere le porte al (tanto atteso, almeno dal sottoscritto) corso di quest’anno sulla serialità televisiva: ci salutiamo quindi con l’ultima puntata, dedicata a ‘Boris, la fuoriserie italiana’. Fate buone visioni!



DALLE NOSTRE PARTI

La serialità televisiva italiana ha anche un volto dissacrante: gli occhi sono quelli del cuore e la troupe diretta da Francesco Pannofino, alias René, è chiamata a girare una soap.
Dal 2007, per ben tre stagioni e con film a completamento, Boris si è proposto come ‘back-stage serial’ (canale Fox Italia) per un pubblico smaliziato e quasi di nicchia, ma con un successo sempre più convincente.
‘Gli occhi del cuore’, inizialmente dall’esito incerto, convince sempre di più, fino alla serializzazione della serie (introduzione di una linea narrativa orizzontale, che va oltre il singolo episodio) con una concentrazione sempre maggiore, sia narrativa sia metanarrativa, su ciò che accade dietro ad una fiction (la nuova fiction ‘Medical Division’, tormentoni sempre più attenuati, maggiore presenza su set esterni).
Nel film addirittura si ambisce a sceneggiare e girare l’Italia contemporanea, quella denunciata ne ‘La Casta’ Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella.



FILM MUTO

Nelle sigle della serie, Elio e le Storie Tese, che già ci avevano illuminato su film muti e film c(i)echi, sono il tramite ideale di una geniale demenzialità.







L’ironicità delle tre sigle (con leggere differenze nell’arco del triennio) è molto evidente negli elementi ricorrenti che le costituiscono: catch-phrase (tormentone); ogni personaggio canta in sincrono versi precisi; nomi di presentazione non troppo connotati; aggiunta stagionale di nuovi personaggi.


COMEDIE HUMAINE

Lo sguardo deformato di una deformante fiction sa molto di ‘comédie humaine’, per dirla con canoni (letterari) ottocenteschi. Boris, il pesce del regista, vive sotto vetro, galleggiando, come i protagonisti, nello schermo televisivo. Boris è il simbolo del pubblico, il confidente muto, ed è un omaggio al tennista Boris Becker, così come il tennis sarà un tenue ma resistente filo rosso della serie.


LO STAGISTA

Alessandro, che focalizza più di tutti il punto di vista dello spettatore, è lo stagista, il ‘pesce fuor d’acqua’, catapultato in un mondo, quello della fiction, nel quale imperano cinismo, pressapochismo e molti altri dis-valori: un vero e proprio cult per gli addetti ai lavori della fiction e per chi lavora in una vera casa di produzione. Non a caso l’arco evolutivo del personaggio si piegherà decisamente in negativo, segnale preciso di chi, da puro, diventa infine corrotto e contaminato (anche sul piano personale verrà lasciato dalla fidanzata). Il set è sempre più spazio utopico ed Alessandro un appiglio a chi pone il suo sguardo a questo (poco raccomandabile) ambiente.


IL REGISTA

René (Francesco Pannofino) è portatore dell'ottica del disincanto. E' il regista rassegnato che trova conforto solo grazie al pesciolino Boris. Anch'egli è connotato da alcuni tormentoni... “Cagna!”.


L'ATTORE PROTAGONISTA

Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) è portatore della caratteristica della superbia. Vanesio e bugiardo, sostenitore del metodo Stanislavskij, rifugge tutto ciò che è troppo italiano.


L'ATTRICE PROTAGONISTA

Nelle diverse stagioni ci ritroviamo in compagnia di Corinna (Carolina Crescentini), la lussuria, donna totalmente incapace; di Cristina (Eugenia Costantini), la svaporata, figlia di un uomo ricco e potente; di Karin 'le cosce' (Karin Proia), personaggio sensuale, donna rustica e volgare. Chiude la galleria, Fabiana (Angelica Leo), attrice capace, nel segreto quasi generale figlia di René.


L'ASSISTENTE ALLA REGIA

Arianna (Caterina Guzzanti) tiene sul set il filo ('nomen omen'). Responsabile di produzione, sembra vivere solo per il lavoro.


IL CAPO ELETTRICISTA

Biascica (Paolo Calabresi) è il braccio destro del direttore della fotografia. Brutale e volgare (connotato dalla geo-tipizzazione del 'romanaccio'), maltratta il suo assistente e vive crescenti dissidi interiori.


ALTRI PERSONAGGI

Lorenzo (Carlo Luca De Ruggieri), 'lo schiavo', simboleggia la sottomissione. La sua precisione lo porterà ad essere inviso un po' a tutti.
Il dottor Cane è il direttore di rete. Voce senza volto (almeno prima della fine della serie) persegue fini esclusivamente materialistici (economici, politici e sessuali).
Lopez (Antonio Catania) ha i tratti del doppiogiochista e dell'opportunista.
Itala (Roberta Fiorentini) è l'alcolizzata, l'unica vera donna docile, anche se tipizzata un po' troppo da 'casalinga di Voghera'.
Gloria è la truccatrice.
Gli sceneggiatori (Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti) sono perlopiù svogliati, pigri e interessati solo ai soldi: sono lo sguardo cinico sulla tv italiana.
Martellone è l'attore teatrale impegnato, che per trovare consenso diventa comico sboccato.
Glauco è il regista maestro di vita.
Mariano (Corrado Guzzanti) impersona l'attore psicopatico.
Nelle diverse stagioni sono presenti numerose guest star, sia in ruoli di fantasia, sia nei panni di loro stessi. Tra i più famosi: Roberto Herlitzka, Valentina Lodovini, Cecilia Dazzi, Sergio Fiorentini, Laura Morante, Sergio Brio, Paolo Sorrentino, Giorgio Tirabassi, Filippo Timi.


GLI ATTORI E LA RECITAZIONE

In Boris gli attori risultano tutti noti e più o meno affermati, ma il loro compito è quello di recitare da cani. Ma - si badi - solo il bravo attore sa recitare male in modo credibile. Da qui scaturisce una gustosissima parodia della cattiva recitazione, che si intreccia con la falsariga della caratterizzazione, prima da me sommariamente presentata, di varie tipologie umane.
La cura dei dettagli, il supporto prima citato di guest star nostrane, ci riporta nell'alveo della tradizionale e consolidata 'commedia all'italiana'.


I (NON) LUOGHI

Boris pullula di non luoghi: l'arena setting, lo spazio vetrato e cittadino del dottor Cane, con il cellulare di Lopez a far da ponte tra questi due 'spazi'.


SATIRA E TV

Boris è lo spaccato dell'Italia datata 2008-2010. I nani, le ballerine raccomandate, la politica ovunque imperante nella sua veste più bieca... il trionfo del QUALUNQUISMO (Cetto sta per nascere...).


LA STRUTTURA

E' molto interessante notare come la struttura di Boris sia variabile, come cambi nel corso delle sue stagioni. Come già riferito, dopo episodi che presentano a tratti una struttura vaga, passiamo ad una 'serializzazione della serie', ma sempre nel segno di una studiata assenza di metodo:
  • inserti visivi (flash-back e flash-forward);
  • 'running gag' senza effettivo sviluppo narrativo (tipico espediente della sit-com);
  • MacGuffin (il pretesto narrativo di hitchcockiana memoria), es. l'anello del conte.


LA MESSA IN SCENA

La regia (quella vera) si avvale del contributo di steady-cam, per un girato dinamico, avvolgente e ritmato.
La fotografia è ricca, il montaggio ben riuscito.
Il realismo della lingua si abbina ad una recitazione dai toni decisamente naturali.


METAFORE SULLA NEO-TV

E' VECCHIO, DECREPITO, E' STATO TEATRO DI IMMANI SOFFERENZE.
I PICCIONI VI DEFECANO, MA ALLA FINE LO GUARDANO TUTTI.
Il dottor Cane sul Colosseo

Al centro della riflessione di Boris c'è forse l'auto-referenzialità della cosiddetta neo-tv? Certamente!
Il passaggio epocale alle reti private di una gran fetta della tv italiana ha generato una fiction della quale parla QUESTA fiction. Tv di flusso (mescolamento di news, enterteinement, etc.)? Ridiamoci su, dai, mettendo in scena un certo pubblico e un certo tipo di fiction!
Il talento degli sceneggiatori italiani (e forse non solo italiani), che dà il meglio nei suoi toni realistici, nelle citazioni canzonatorie e poco riverenti (fino alla parodia di testi cinematografici e serie televisive internazionali arci-note), è in fondo soffocato dalla ghigliottina dell'audience e da ciò che la gente vuole.


L'UMORISMO

L'umorismo di Boris è generato da un giusto mix di comicità di situazione e di comicità verbale.
Altri codici a supporto sono:
  • i dialoghi brillanti;
  • l'inversione di situazioni (secondo lo schema introduzione-conferma-disattesa);
  • il tabù in chiave comica (circa i temi droga, sesso, raccomandazione, bestemmia, etc);
  • la contiguità (cfr. LA STRUTTURA) con la sit-com;
  • il realismo di una società riprodotta tramite il realismo dei set;
  • il tono amaro (cifra della commedia all'italiana), che all'occorrenza si consolida in riso amaro e rappresentazione del ridicolo legato al fallimento;
  • la 'procadenza' (altra cifra) di felliniana memoria, ovvero l'amore allegro per la decadenza.

In definitiva, per chiudere il cerchio, grazie all'umorismo Boris mette in scena in maniera poco italiana situazioni e personaggi molto italiani: una (fuori)serie, una galleria, di inconsapevoli perdenti!

SERIE TV 5: IL TELEFILM SONO IO


Eccoci alla penultima blog-dispensa, in veste volutamente ridotta, un po’ perché l’argomento di stasera è legato ad un telefilm tra i più amati da chi scrive (per cui mi sono dedicato molto all’ascolto e poco alla rielaborazione), un po’ perché il messaggio lanciato dalla serata (come da titolo da me proposto) è stato che la nuova serialità richiede un ruolo assolutamente attivo e collaborativo (nell’integrazione con la propria ‘enciclopedia’) da parte dello spettatore.

Un grazie a Paolo e Luana per la sentita compagnia.



IL NAUFRAGIO DELLA VITA

Lost. Scritta bianca semovente in campo nero. Un suono sempre più cigolante come sottofondo. Vi perdereste mai in un mondo così? Io l’ho fatto e ne sto ancora “pagando le conseguenze”…
Tanti anni fa, ancora adolescente, senza avere nemmeno la più pallida idea di chi fosse Borges, pur conoscendo molto all’ingrosso Shakespeare e pur già in parte consapevole dell’importanza dei Classici per la cultura moderna, sognavo di poter un giorno leggere un libro, vedere un film, insomma assistere ad uno spettacolo nel quale fosse possibile radunare in un'unica narrazione tutto ‘il meglio di’.
A diciott’anni, poi, dopo un esame di maturità non particolarmente brillante, immaginavo già di tornare indietro nel tempo a riempire qualche buco, sia di studio sia di vita personale, per rimediare a quanto di lost e di looser mi ero lasciato alle spalle.
Ne è passata di acqua sotto ai ponti, ma poi ci hanno pensato i veri creativi, i geni dello script (tra i quali J.J. Abrams è più che un astro nascente), a sviluppare una semplice ma fondamentale intuizione... La storia più bella da scrivere? La nostra! Quella che intessiamo ogni giorno, a partire dalle nostre percezioni, razionali o meno che siano. La vita diventa ciò che col ‘pensier mi fingo’, per cui ‘il naufragar m’è dolce in questo mar’.
E poco male se J.J. Abrams non è riuscito a completare le sette stagioni, per chiudere il suo cerchio magico del ‘tre più quattro', o se molti fan hanno rivolto il pollice verso terra (la vittoria dell’anti-Fonzie) alla visione della doppia puntata finale.
E allora sotto con il mondo di Lost, che stasera il nostro relatore Mariano Diotto (certamente tradendo le mie lostalgiche attese, ma non lasciando malcontento nessuno) ha affrontato da un punto di vista prevalentemente tecnico-comunicativo.


L’IO EPICO

Con sedici protagonisti – vi parrà impossibile – il protagonista principale diventa il diciassettesimo. Il diciassettesimo – non prendetevela con la Cabala – siete voi!
In Lost la focalizzazione del racconto viene scientemente offerta allo spettatore, che pazientemente e amorevolmente, imparerà quasi da subito a teorizzarne e condividerne la filosofia.



L’occhio di Jack Shepard si (ri)apre, ma la visione diventa ben presto soggettiva; inoltre misteri e tessere da ricomporre faranno subito la loro comparsa (il cane Vincent, una scarpa da tennis, qualcosa di oscuro) e non solo nella prima puntata.
L’io epico si immerge nella narrazione, ma sempre nell’ottica dello straniamento, tecnica narrativa che ci chiama in causa non più come meri spettatori, ma quali ricercatori della nostra chiave di lettura.
Perdersi in Lost è quindi esattamente la prospettiva voluta, sempre che siate dei candidati pronti ad accettare le regole e a mettervi in gioco.
Anch’io l’ho fatto, insieme ad altri amici, ed oltre al mondo più o meno Vintage della Dharma, ecco il moltiplicarsi per me di serate al pub, cene a tema, gruppi di ascolto, una volata al Telefilm Festival e un blog cooperativo.


CHE MONDO SAREBBE… SENZA LOST

Creare molteplici mondi dalla natura più svariata (possibili, impossibili, inconcepibili), connotarli attraverso precisi paratesti e codici comunicativi non è stata una scelta da poco.
Il principio è quello della disseminazione di elementi, via via più complessi e ingarbugliati, fino ad operare su almeno quattro/cinque livelli narrativi, livelli che poi ognuno riassemblerà personalmente, inserendoli nel proprio orizzonte di attesa (almeno fino a che il cielo non diventi viola… da lì, in poi – lo confesso – ci ho praticamente rinunciato).
Le diverse modalità e il dosaggio nell’usufruire di questo prodotto televisivo hanno poi da sempre fatto la differenza, in modo oltretutto nemmeno tanto velatamente nascosto.


TECNICISMI

*(Destare) MERAVIGLIA: è la cifra della narrazione. Stupire e intrattenere in modo intelligente è la strada maestra almeno fin dai tempi di Omero, che da bravo "sceneggiatore" preferiva non giocare subito le sue carte narrative migliori ed era solito scandire le sue opere in ventiquattro “libri”, forse presagendo la durata standard di una moderna stagione televisiva.

*(il particolare) CONTESTO: scardinare il ritmo e l’andamento tradizionale della narrazione è uno dei grandi risultati di Lost… 'Picture a large, large box!’.

*IDENTIFICAZIONE/EMULAZIONE (con i personaggi): io volevo essere Desmond David Hume… l’ho deciso durante il finale della seconda stagione. Obama, non lo so. E voi?

*MANIPOLARE (e rendere comunicativi i segni): vi rimando alla lettura dell’ultimo paragrafo, per non ripetermi.

*LINGUAGGIO ICONICO: stilizzare è un modo efficace di rappresentare la realtà. Lo sanno i grandi, lo fanno spontaneamente i bambini. Le situazioni stilizzate in Lost ci sono quasi da subito ben familiari.

*SEGNI INDICALI: la vicinanza, il richiamarsi dei vari segni moltiplicano l’efficacia della comunicazione. Lost sfonda questo orizzonte fino ai limiti estremi della metanarrazione.

*SEGNI SIMBOLICI: la metaforicità di Lost diventa con il passare delle stagioni sempre più strabiliante, come del resto lo è il numero delle teorie che i fan più o meno sfegatati sono riusciti ad elaborare proprio a partire dall’alto livello di connessioni possibili.

*CULTURE TESTUALIZZATE E CULTURE GRAMMATICALIZZATE: qual è il vostro orizzonte comunicativo? Siete più uomini di scienza o uomini di fede?

Like John Loche?




Like Jack Shepard?



SEGNATI DA LOST

In definitiva, i segni comunicativi in Lost sono proposti come messaggio e ricerca di senso da completare, possibilmente in modo comunitario, sia all’interno della storia, durante il suo svolgimento (intreccio), sia all’esterno, nella sua ricezione, per spingersi - lo ribadisco - fino al limite della metanarrazione, uno dei grandi orizzonti e dei principali grimaldelli con il quale abbiamo un po’ tutti cercato di scardinare la Serie e di risalire non solo alla sorgente dell’Isola ma anche alle fonti della... Lostpedia.
Certo, forse nessuno di noi comuni mortali è mai entrato nella stanza dei bottoni o ha fatto parte del writing staff. Ma il nostro stimato relatore, che ha avuto modo di intervistare J.J. Abrams, ci ha lasciato ricordandoci la bellezza dell’essere divenuti (anche grazie alla svolta di Lost!) degli spettatori sempre più accorti e partecipi, pronti ad apprezzare ciò che (tutta) la nuova serialità ci propone.




SERIE TV 4: IL SALTO DELLO SQUALO


In questo quarto incontro sulla serialità televisiva, il bravissimo relatore MARIANO DIOTTO ci ha introdotto nel mondo in continua evoluzione del teen-drama.
Alzate il volume! Grazie alle sigle dei nostri telefilm più o meno preferiti le emozioni sono assicurate.
Il nostro corso ha fatto stasera, in senso positivo, il salto dello squalo! 




PER ENTRARE IN ARGOMENTO

Il teen-drama è molto di più di un semplice prodotto per adolescenti. In esso troviamo certamente riprodotto il mondo dei giovani; lo spazio dei protagonisti è ancorato sui giovani; il target, idem.
Inoltre c’è da considerarne la diffusione nazionale ed internazionale (in assoluto quella made in U.S.A.); la narrazione, a carattere episodico, aspira alla lunga gittata e segue un format simile, ma allo stesso tempo nettamente diverso, da quello della soap-opera.
E’ questo un mondo che trovava ospitalità un tempo esclusivamente sui canali generici, mentre oggi molto di più la trova sui canali tematici, con lo scopo di allungare sempre di più la vita televisiva di un cast tendenzialmente stabile (e per questo vincolato solitamente con contratti di almeno sette anni).
Ci sono poi precisi tempi di registrazione (a primavera inoltrata) e di trasmissione (fine estate). Solo se la mid-season avrà funzionato (la misura dei tredici episodi) allora la stagione si allungherà (oltre i venti episodi).
Siamo pronti – come sognato da ogni produttore, anche il più scalcinato – ad affezionarci e a crescere insieme alle nostre serie preferite?




COSA CI HA PORTATO LA CICOGNA?

Il teen-drama televisivo nasce il 15 gennaio 1974 sulla ABC sotto il segno di “Happy Days”.


(1974 – 1984) CANALE ABC, 11 STAGIONI, 255 EPISODI

L’ascendente è talmente forte che, un po’ come al cinema, da quel momento in poi per molti attori sarà impresa ardua quella di togliersi addosso il nome-etichetta del protagonista.


IN VIAGGIO ATTRAVERSO NUOVE COSTELLAZIONI…

Inscenare il mondo degli adolescenti (dai tredici ai diciannove anni, tanto per fornire le coordinate del teen-drama americano) è una scelta prolifica e vincente, con tanto di creazione di un parallelo universo di merchandising pronto ad espandersi.
“Happy Days”, in maniera esemplare, dà presto vita a vari (più o meno canonici) spin-off: “Mork & Mindy”, “Laverne & Shirley”, “Le ragazze di Blansky” (con un giovanissimo Scott Baio), “Out of the blue”, “Joanie loves Chachi” (in contemporanea con lo stesso “Happy Days”).




… UN LUNGO VIAGGIO!

La NBC scende in campo nel 1979, ben determinata a conquistare il pubblico di prima serata.


(1979 – 1988) CANALE ABC, 9 STAGIONI, 209 EPISODI

La famiglia americana, ma non solo essa, comincia a disgregarsi e il mondo del college diventa luogo di aggregazione e di iniziazione alla vita, proponendo già un’interessante gamma di stereotipi, qui rigorosamente al femminile.

La TV – è risaputo -  è soprattutto business e le produzioni in grande stile vi trovano terreno fertile, specie nella Los Angeles dai set perennemente illuminati da una luce avvolgente.
Nel 1982, intanto, da New York arriva


(1982 – 1987) CANALE NBC, 6 STAGIONI, 136 EPISODI

con una sigla che comincia ad essere parlata, in una serie che porta dentro di sé tutte le caratterizzazioni e gli stereotipi  del teen-drama. Si prosegue da un film per arrivare in tempi più avanzati alla contaminazione con lo sfolgorante mondo del musical, fino all’italiano “Amici”, per cui Maria De Filippi dovrà, per questioni di diritti d’autore, rifare il maquillage all’originario “Saranno famosi”.

Nel 1989 la Fox, che fin dagli anni ’70 ci ha regalato grandi telefilm, ci propone anch’essa dei teen-drama.


(1990 – 2000) CANALE FOX, 10 STAGIONI, 296 EPISODI

Il pugno, nato quasi per sbaglio, che connota la sigla, ci apre (per i telefilm) il nuovo(ma non poco problematico) mondo del successo e del reddito elevato: comincia lo “sdoganamento” di problematiche giovanili quali droga, alcol, sesso, omosessualità. E’ forse il primo vero e proprio fenomeno planetario di esportazione, che fa la fortuna del mitico Aaron Spelling, che nonchalance regalerà alla figlia Tori un ruolo da co-protagonista.

Nel 1992 la Fox “rincara la dose” con


(1992 – 1999) CANALE FOX, 7 STAGIONI, 226 EPISODI

Il mondo del teen-drama sfonda quota venti (l’età, sempre meno teen, dei protagonisti) e impone attori allora esordienti e ancora oggi presenti in altre produzioni, nelle quali attualmente impersonano quantomeno ruoli adulti o magari (salto della barricata) da genitori.

Insomma, dopo le famiglie più o meno idilliache (“La famiglia Bradford”, “Casa Keaton”, etc.), largo ai giovani… senza famiglia!



(1994 – 2000) CANALE FOX, 6 STAGIONI, 142 EPISODI

Un Matthew Fox giovanissimo ancora non pensa a intraprendere… altre carriere!

I genitori? Meglio se non ci sono.


ANNI NOVANTA: L’ETA’ DELL’ORA DEL TEEN DRAMA

La spinta “realista” della Fox continua.


 (1998 – 2003) CANALE FOX, 6 STAGIONI, 128 EPISODI

Il teen-drama raggiunge il suo apice, per poi attraversare, verso fine decade, un deciso calo di ascolti.


IL SALTO DELLO SQUALO

Quando un telefilm diventa meno credibile, quando dopo un determinato episodio qualcosa si scolla nel rapporto tra pubblico e serie, in termini critico-televisivi si parla di “salto dello squalo” (forse in riferimento a un episodio di “Happy Days” nel quale Fonzie fu protagonista esattamente di quel tipo di salto).



I teen-drama faranno nel nuovo millennio un salto, inteso però in senso (pro)positivo: riusciranno in buona sostanza a garantirsi nuova vita, imboccando vie alternative, a partire da sigle sempre più simili a mini-spot, sigle che lasciano in eredità i titoli di testa all’incipit della trasmissione.


TRA FANTASY E CANALI TEMATICI

A fine anni Novanta ecco la svolta del fantasy.



 (1998 – 2006) CANALE WB, 8 STAGIONI, 178 EPISODI

Inoltre, si diffondono via via, con largo anticipo rispetto all’Italia (che oltretutto, fino ad allora, aveva importato molti telefilm, e non solo i teen-drama, con colpevole ritardo), nuovi e numerosi canali tematici.
A partire dal 1996 ecco apparire la UPN, con titoli (tra gli altri) come “Tutti odiano Chris”, “Girl friends”, “Buffy”, “Roswell”, “Veronica Mars”.
Nel 2001 è il turno della ABC FAMILY che (in estrema sintesi) esemplificherei con “Kyle XY”, “Greek”, “La vita segreta di una teen-ager americana”, “Switch at birth”.
Il 2002 è l’anno di TEEN NICK, che (ad esempio) propone “Degressi”, “Summerland”, “Laguna beach”.
A partire dal 2006 CW ci regala i successi si “Supernatural”, “Smallville”, “Gossip girl”, “One three hill”, “Merlose Place”.
Il target giovane (dall’infanzia alle medie) viene poi bersagliato da NICKELODEON (2004) e da DISNEY CHANNEL (1997). In particolare quest’ultimo canale ha traghettato verso il successo Hanna Montana, Jonas Brothers, Britney Spears. Sentitamente, ringraziamo (se siamo nati dopo il 1993)!?


BREVE ZOOM SUL NUOVO MILLENNIO

Superato il “millennium bug” si definiscono in modo abbastanza preciso le sottocategorie del teen-drama.

SCI(ENCE) – FI(CTION)
FANTASY
ADVENTURE
COMIC
TEEN
MISTERY
NEO-ROMANTIC
SPORT
RELIGION
SEX

Di conseguenza i principali network si spingono in imponenti produzioni per ‘competere con le’ e ‘controbattere alle’ proposte monotematiche.
Dal 2001 al 2011 ecco il racconto (dalle connotazioni prequel) di “Smallville”, oppure dal 2003 al 2007 fa la sua comparsa THE O(range) C(ounty) che rafforza un nuovo modo di comunicare, in un mondo telefilmico nel quale le sigle (musicali) finiscono per costare quasi come (o di più) della produzione stessa del serial.



Si rafforza, inoltre, il dualismo del bene contro il male, il confronto tra i ragazzi buoni e i ragazzi cattivi.
Molto di recente si sono ancor di più inaspriti i toni CONTRO i canoni buonisti, ad esempio con “Misfits” (sul fronte inglese), “Skins” (sempre dall’Inghilterra), “Fisica o Chimica” (dalla Spagna).

Sul fronte sportivo grande è il successo di “One three hill”, centrato sul basket, una serie che tra l’altro ha visto i protagonisti abbandonare la scena all’apice del successo.

Il soprannaturale, a metà del 2005, viene coniugato al maschile in “Supernatural”.

E, andando sempre più avanti con gli anni, verso tempi di crisi, l’effetto placebo di chi sta comunque bene economicamente è garantito da “The gossip girls”.

Il vampirismo è ben raccontato in “Teen Wolf”; si crea l’abbinamento tra telefilm di culto e canali tematici, accoppiata che forse raggiunge le sue vette (per la capacità di scrittura e il gran ritmo narrativo) in “The vampire diaries” (giunto attualmente alla sua quarta stagione).

Dal 2010 il teen-drama “si sposa” col mondo social approdando su Facebook o generando particolari #hashtag Twitter, per non parlare del connubio col mondo talent (show) per stabilire chi può partecipare ad una nuova stagione di “Glee” (e permettendo alla protagonista Lea Michele di cantare al Superbowl).

L’importante però è allungare il proprio successo, far affezionare gli spettatori dei serial anche ai nuovi personaggi: la ripartenza (il “salto dello squalo”… ma in positivo!) è così garantita!


CHIUSI NELLO STIVALE

E in Italia? Le grandi produzioni americane arrivano finalmente in Patria molto più a ridosso della loro primitiva messa in onda (anche se l’invidiabile - ma non sempre nei telefilm - doppiaggio italiano vincola ancora molto, per costi, la celerità d’uscita).
Il panorama nostrano è sempre però molto dipendente fa format stranieri (es. gli stessi “Cesaroni”): per avere proposte interessanti di teen-drama possiamo forse guardare a “Grandi domani” (2005) o a “I liceali” (2008 – 2011)?


IN CONCLUSIONE

I teen-drama, come naturale, sono molto cambiati d’aspetto rispetto alla loro nascita negli Anni Settanta.
Da sempre essi ci raccontano alcuni particolari della vita degli adolescenti, soprattutto gli aspetti problematici. Si è peraltro accentuato, mano a mano, il depotenziamento della figura adulta, è cresciuto l’elemento legato al mistero, la sessualità si è fatta sempre più esplicita. Da sempre essi finiscono con l’imporre modelli e stereotipi e per favorire processi di imitazione.

L’obiettivo è di certo il business commerciale, ma i teen-drama hanno il pregio di raccontare e a volte di precedere la società. Sono del resto ancora oggi presenti i principali stereotipi del mondo giovanile: belli e dannati; nerd (perlopiù ingenui e “sfigati”); ragazze brave ed ingenue (quelle che - ma va là?! - rimangono puntualmente incinte); ragazze affascinanti e libere sessualmente; la fisicità come prodotto commerciale (ormai sempre più declinata al maschile); poveri che possono diventare ricchi; il denaro e la posizione sociale come valore assoluto e massima aspirazione. C’è però da segnalare parimenti un ritorno alla riaffermazione di valori importanti, legati alla riconquista di una dirittura morale.

L’affascinante mondo del teen-drama ha in fondo il grande pregio di raccontarci il mondo dei giovani, attraverso i giovani, investendo sui giovani. Chissà quanti di noi in queste giornate elettorali non hanno pensato…
LARGO AI GIOVANI!

SERIE TV 3: I VOLTI DI TWIN PEAKS


Sigla iniziale: le note di Angelo Badalamenti ci scaraventano ‘ex abrupto’ nel mondo dei 51.201 abitanti di Twin Peaks. Comincia così la magistrale lezione del prof. Alessandro Tedeschi Turco, interamente dedicata ad uno dei serial in assoluto più innovativi della storia del piccolo schermo. Eccovi la mia breve, modesta e non fedele trascrizione, costruita su alcuni spunti prima scelti e rielaborati a piacere, poi raggruppati per piccoli paragrafi.



LYNCH & FROST

La firma autoriale è doppia(!), praticamente inscindibile: un affermato sceneggiatore @mfrost11 (il suo Hill street blues è stato uno dei caposaldi della nuova serialità televisiva, specie in Italia) si accompagna a un grande cineasta @DAVID_LYNCH, che a lungo ha vissuto e sognato il cinema, prima di privilegiare la meditazione trascendentale e le piccole manifatture in legno.
La “premiata ditta” sbanca il palinsesto ABC nelle stagioni 1990 e 1991, innovando decisamente la vita dei serial tv e integrando con perizia sviluppi orizzontali e sviluppi verticali della scrittura telefilmica.
Un pilot, trasformato poi anche in una specie di film, sei puntate (per una Season1 a connotazione fortemente grottesca) e altre ventidue puntate (con il prevalere nella Season2della direttrice surrealistico-metafisica), senza contare il prequel Twin Peaks: Fuoco cammina con me!: ecco a voi le ventinove puntate del (sempre più) fatato mondo di Twin Peaks.



LA SFIDA TELEVISIVA

Già da tempo registi più o meno affermati hanno vissuto il cosiddetto b-movie e la scrittura per il piccolo schermo come vera e propria palestra di regia e come terreno di sperimentazione.
Il fatto invece di portare una prospettiva eminentemente cinematografica e sperimentale dentro ad un serial tv, più che una sfida, è una vera e propria rivoluzione, che contamina (nel senso più nobile, latino, del termine) il terreno telefilmico, fino alla germinazione: la sperimentalità e il broadcasting made in U.S.A., tradizionalmente gelidi tra loro, riescono, seppur per poco, a convivere, e così a figliare. Di lì a breve compariranno X-files e E.R.




LA MISURA DELTEMPO NARRATIVO

I tempi (co)stretti che impone il lungometraggio (Lynch ne aveva fatto le spese con Dune, ma si presentava con il sicuro bagaglio di Blue Velvet e del suo splendido incipit)


e le idee del film e dei film (leggi: personaggi che occhieggiano ai grandi classici di Ford e Wilder, nonché la rifunzionalizzazione di intere stagioni del cinema U.S.A., specie anni’50) vengono reimpiantate da Lynch (in questo senso meno da Frost, che padroneggia più lo script rispetto alla messa in scena) su un terreno eminentemente televisivo.
Sono due i grandi riferimenti a livello narrativo: la soap-opera e la struttura gialla del thriller/poliziesco americano, abilmente reinterpretati e ripercorsi.
Se invece volete “scientemente” immergervi nella deriva filosofico-lisergica (un bel po’ indigesta al nostro stimato relatore, il quale però ne conosceva bene le implicazioni fino a citare la Società Teosofica cofondata da Helena Petrovna Blavatsky e a suggerire la lettura di Roberto Manzocco Twin Peaks, David Lynch e la filosofia) vi allontanereste tutto sommato dal taglio cinematografico seguito in questo corso.


GALLERIE

Chi c’era in quel (tele)film? Ecco la vera domanda per condurre una lucida (!?) analisi.
In definitiva, la definizione dei personaggi è la definizione dello stile, e viceversa!


Twin Peaks



cittadina che predomina già da una sigla privata di personaggi e di riferimenti alla trama, per lasciare spazio al paese, ai boschi e ai meccanismi meccanici.


Laura Palmer (Sheryl Lee)



nome in parte tratto da Vertigine di Otto Preminger.


L’agente speciale Dale Cooper (Kyle McLachlan)



amante dei dolciumi, del caffè, della cordialità, almeno fino a quando non lo faranno “alterare”.
(Per questi ed altri personaggi clicca e sfoglia...)


IN CABINA DI REGIA

Lynch e Frost incanalano con mano sicura (ma non sceneggiano e dirigono tutti e ventinove) gli episodi del serial. Inoltre, i tentennamenti del network ABC, specie nel corso della seconda stagione, non garantiranno tutto l’appoggio necessario al lavoro dei Nostri, facendo sì che il risultato sia qualcosa di straordinariamente altro.
Se poi consideriamo che la Prima Guerra del Golfo calamitò l’attenzione statunitense e mondiale con ciò che meglio sa fare la Tv, ovvero la diretta (ricordo ancora prima le immagini tv e poi la lettura, tutta d’un fiato, dell’esperienza di Peter Arnett, ultimo giornalista “occidentale” rimasto in Iraq), il quadro è già più chiaro. Insomma, per misurarne il reale spessore, occorre sempre guardare alle puntate di un serial tv nel momento e nel contesto esatto in cui le stesse sono state trasmesse: solo così sarà possibile capire il vero perché di determinate scelte narrative.
Nella “stanza dei bottoni” tutto viene sapientemente plasmato da Lynch e Frost, legato dai vari registi chiamati a supporto e reso vivo e imperituro dal commento musicale di Angelo Badalamenti.
Grazie all’uso accurato dei piani sequenza (nonché di alcuni celebri carrelli inquieti che hanno fatto scuola, come ad es. nel Donnie Darko di Richard Kelly), alla proposta di dialoghi raffinati (seppur talora asciugati da ogni referenzialità, quasi ad occhieggiare al teatro di Pinter o di Beckett), a determinate scelte stilistiche (il rovesciamento dei clichés U.S.A., lo sfuttamento del linguaggio di soap-opera, college-film, horror-movie, splatter) e a determinate scelte tecniche (camere a mano, particolari punti-luce, effetti stroboscopici) vengono riversati nel piccolo schermo precisi stilemi cinematografici.
Aggiungo io: tutto ciò si rivela profondamente “lynchano”, e va oltre una semplice lettura onirico-filosofica. Tutto ciò ha molto più a che fare, secondo me, con le capacità rappresentative dell’arte e con la riflessione sui suoi limiti, anche nei rivoli più “diversi” (ricordiamoci che Lynch è estimatore del pittore Francis Bacon e della sua pittura del sommerso).
E’ in definitiva il grande gioco dello svuotamento delle forme, ovvero una delle linee-maestre di tutta la cultura novecentesca. Lynch e Frost propongono tutto ciò in tv negli anni ancora segnati dalla presenza, seppur non inedita, di serial come Colombo o La Signora in giallo, rifunzionalizzando da par loro una personalissima idea di cinema, cara soprattutto all’ex boy scout nato a Missoula (Montana).
E’, come detto, la linea di un linguaggio artistico che non riesce più a dire sé stesso, il racconto di un mondo che si svuota delle sue possibilità di riferimento, quasi certamente perché non le ha, o quantomeno perché non sono così direttamente rappresentabili.


MA INSOMMA: CHI HA UCCISO LAURA PALMER?

Non è mai facile gestire una traccia metafisica in un serial tv, soprattutto se andiamo verso l’epilogo. E se poi se ne accorge la produzione… son dolori!
Lynch torna dopo qualche tempo a dirigere in prima persona (e anche a interpretare) alcuni episodi-chiave della serie, per rivelarci, sempre incastonando il tutto col grande commento sonoro di Badalamenti, la natura dell’assassin(i)o di Laura Palmer, con una preciso e gigante(sco!) salto nella dimensione onirico-metafisica.

http://youtu.be/6ejwoe83uF8


(ALLORA) SI PUO’ (FORSE) VIVERE SENZA RED ROOM (?)

Risposta secca, sì.
Una capatina, però, è sempre meglio farcela



Ma non è strettamente necessario, se vogliamo limitarci a parlare di cinema e Twin Peaks, e magari usare Lynch come link per Tarantino, suo allievo mai dichiarato.
Potreste addirittura correre il rischio di rimanervi intrappolati a interrogarvi sulla natura dei sicomori, o a chiedervi chi stia dalla parte della luce e chi dalla parte delle tenebre, perduti in uno scorcio blu elettrico. Attenzione soprattutto a non perdere un braccio!



Se v’interessa, però, potreste (se non l’avete già fatto) godervi l’omaggio di Psych ad un serial che in tanti abbiamo amato ed amiamo, e magari potreste sottoscrivere una petizione inascoltata (e quasi di certo scaduta) da ormai troppi anni.




Twin Peaks opened gaps in the thin veil of our lives. Sooner or later we will sit in the light or in darkness to review our show.
LET'S ROCK!

SERIE TV 2: LA RISCRITTURA E' SERIALITA'


Nel secondo incontro di questa interessante e competente panoramica sulla serialità televisiva, l'inappuntabile relatore Simone Villani ci ha guidato con mano ferma nell'affascinante mondo dello spin-off, ovvero dei testi che nascono da altri testi.  Ecco la mia seconda – come dice il mio maestro Faramir - “blog-dispensa”.



Per dirla con Queneau, Perec, Calvino et alii dell'OU.LI.PO [ma rileggetevi, extra corso, l'imprescindibile Virginia] e per dirla con Genette, eccovi servita la TRANSFOCALIZZAZIONE, ovvero la mutazione del punto di vista.
Tom Stoppard col suo mirabile e stravagante “Rosencrantz e Guildestern sono morti”[modestamente ci avevo pensato pure io] ci aveva portato dentro la testa di questi protagonisti minori dell'Amleto, raccontando la storia del principe danese dal loro bizzarro punto di vista.

Stephen Frears ci ha mostrato il punto di vista della domestica (Julia Roberts!) Mary Reilly circa la vicenda del dottor Jeckyll e di Mr. Hyde.




Jean Giraudoux racconta la storia di Elpenor, il più che semisconosciuto marinaio dell'Iliade di Omero (ma anche òmero, come solo in parte giustamente, accentando inconsapevolmente alla greca, pronunciano alcuni mie studenti di prima media).


L'INTRIGANTE MONDO DELLO SPIN-OFF

Avete presente quando un primo piano diventa uno sfondo? No? Peccato, perché lo spin-off in fondo è tutto qui.
1974: la provincia americana, già immortalata negli American Graffiti di George Lucas (che emozione ripensare a quando, giovane e fallimentare studente sognatore, li ho visti, registrati in VHS), prende le vesti di Milwaukee in Happy Days, serie tv che figlierà per ben tre volte, con Joanie loves ChuckyLaverne & Shirley, per non parlare di (nanonano!) Mork & Mindy. Ma in fondo Happy Days fu lo spin-off di sé stesso con l'all american boy Richie Cunningham (ehilà, ehilà, ehilà: ballo sfida! - Ron Howard) centro geometrico di una serie che vedrà man mano prendere il sopravvento del giubbotto di pelle di Arthur Fonzarelli (ehi! - Henry Winkler).


All in the family “giustamente” (ovviamente secondo la perversa logica dei traduttori nostrani) italianizzato in Arcibaldo ha avuto a che fare con la nascita di The Jeffersons, che a sua volta regalarono popolarità alla domestica Florence, per poi portare al suo Checking in.
E alzi la mano chi ha mai visto la moglie del tenente Colombo (chiaro sintomo di come l'assenza possa diventare narcisismo) nella serie minore passata anche in Italia (e io ho pure un amico di nome Michele, del quale non ho mai visto la moglie e lui me ne parla sempre e comunque).

http://www.youtube.com/watch?v=SveZ6eS-H4s


PUNTATE PILOTA

Quindici stagioni per mostrare, decidere, valutare che fine avrebbero fatto i Medici (non quelli di Firenze) ma quelli di E.R., quelli di Crichton e Spielberg, regista che ha preferito portare al cinema i dinosauri anziché il dottor Carter.
Sia le “serie” (Happy Days è una serie, per le sue puntate auto-conclusive, per la sua assenza di una marcata evoluzione psicologica dei personaggi, per le sue guest-stars che aumentano lo splendore della singola puntata) che i “serial” (nei quali i personaggi evolvono fino... a morire) nascono letteralmente dal pilot, dall'episodio pilota, il numero zero per intenderci. Dicevo: i pilot nascono per decidere, stabilire, valutare, attrarre sponsor, prendere la giusta rincorsa...
L'infermiera Carol Hathaway nel pilot di E.R. - parlare con un medico vero, i diffidenti - è clinicamente morta. Ma poi - guarda un po' - viene “risuscitata”.
Naturalmente, se avessi alzato la mano in sala, l'avrei fatto per parlare di Lost e di Jack Shepard. Ma, ve l'ho detto, il relatore era inappuntabile e allora lui ci ha subito parlato di Conan Doyle che viene costretto nel 1894 a “rispolverare” Sherlock, dopo averlo lasciato morire nel 1891 presso le cascate Reichenbach (quanto avrei voluto, di nuovo, intervenire per dire quanto tutta l'ultima stagione dello Sherlock BBC sia stata splendidamente improntata sul problema I will survive di ogni protagonista e del suo strutturale legame con l'antagonista davanti ad un pubblico che guarda e che giudica).
Insomma, certe tecniche nascono da lontano. Anche Stephen King lo sapeva bene, credo. L'apporto co-autoriale del pubblico non ha insomma origini recenti e da sempre la narrazione subisce varianti a seconda dell'uditorio o del contesto sociale.
E stiamo inoltre attenti a non mescolare, e quindi a falsare, i ricordi.
Star Trek, serie tv nata negli anni Sessanta, ha generato film per il cinema più o meno recenti e diversi seguiti, ma i primi tre anni di passaggi televisivi non riscossero neanche lontanamente tutto il successo seguente.
Il pubblico, insomma, si impadronisce e trasforma l'opera da molto più tempo di quanto comunemente si pensi. In fondo ci sono aspetti narrativi, una volta toccati certi tasti, dei quali, in qualche modo, l'autore finisce per perdere il controllo.
Ma gli autori “non sono nati domani” - come diceva spesso un ruspante sacerdote ai tempi del mio servizio civile - ed essi hanno imparato (da tempo) a fidelizzare (per tempo) il pubblico verso una nuova opzione narrativa: eccovi servito il cosiddetto back door pilot, che con poca spesa anima tante speranze e attese, aprendo una nuova linea narrativa ai personaggi minori.
Molto meglio, tutto sommato, del cross-over, che spesso finisce per sapere di posticcio... con la signora Fletcher che cammina sulla spiaggia con Magnum P.I.


Voi che ne pensate?


IN CONCLUSIONE: TENIAMOCI LE MANI LIBERE

In conclusione teniamoci le mani libere, ma senza esagerare.
Il sogno di Bobby in Dallas rimane memorabile, quasi a resettare addirittura un'intera stagione: scusate, avevamo scherzato, era tutto un sogno!
Al bando gli eccessi della risurrezione, che in realtà è il problema di contratti più o meno rinnovati: quando si dice... le contingenze! E io, così, ho subito pensato allo sciopero degli sceneggiatori americani di qualche stagione fa, sciopero che ha lasciato i segni su più di qualche sceneggiatura.
Pensate, infine, al problema di non svelare un finale, di evitare la fuga di notizie, un po' come le intercettazioni telefoniche o i fascicoli secretati: già da molti anni è invalsa la pratica di girare più finali...

... più



... o meno seri.



Come dicevo, teniamoci le mani libere per andare il più avanti possibile (con le stagioni).
Ma senza navigare troppo a vista: X-files docet.


P.S. IL LETTO DI PROCUSTE

Godetevi infine, al pari di noi corsisti (l'ho trovato solo in inglese) Poison (sempre “coerentemente tradotto” con “Un peso sullo stomaco”).


Sono ventitré minuti (giusto quello deve durare una puntata, per non scalcagnare il palinsesto!) di Alfred Hitchcok, tanto per chiudere riflettendo sulle differenze tra il cinema e lo specifico televisivo (specifico che forse raggiunge il suo apice nella diretta: e io, infatti, ho recentemente passato una notte quasi insonne a vedere il Superbowl numero XLVII).
In questa bellissima serie antologica di Sir Hitch (come fantastica lo fu, in altri ambiti e per altri versi, “Twilight zone” – “Ai confini della realtà”, a volte ci azzeccano nelle traduzioni gli italiani) si incarna la “mitica” idea del letto di Procuste, del tagliare su misura.
Avere dei vincoli? No!? Ma a meglio pensarci, forse si!
La libertà, anche artistica, nasce proprio dandosi (gerundio che il mio “pio” professore del liceo aborriva) delle regole.