Santa Maria in Valena (Valpolicella, VR)

martedì 4 novembre 2014

4 novembre 1918

Il Bollettino della Vittoria, recante in calce la firma del generale Armando Diaz, annuncia che l´Impero Austro-ungarico si arrende all´Italia, in base all'armistizio firmato a Villa Giusti, nei pressi di Padova; in Europa la guerra si chiuderà poco dopo, il giorno 11.
Fu per l'Italia la vittoria (mutilata!) della Prima guerra mondiale e l'inizio di una nuova fase storica, che porterà prima al Ventennio e poi a un nuovo conflitto mondiale.
Il testo del bollettino, fuso nel bronzo delle artiglierie catturate al nemico, è esposto in tutte le Caserme e i municipi d'Italia. Qui a Verona potete trovarne parte del testo sulle targhe presso il Ponte della Vittoria, ponte che in città chiude idealmente il "percorso bellico" che comincia in via XXIV maggio, prosegue in piazza Vittorio Veneto e via 4 novembre, poco prima di via Diaz e accanto al quartiere "risorgimentale" di Borgo Trento. «... I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza».


Tutte le città italiane, comprese le più piccole frazioni, ospitano ancora oggi nelle loro piazze un monumento ai Caduti. Rivolgendo loro il mio saluto civile e patriottico, ricordando in particolare il nonno di mia mamma per sempre disperso dopo la rotta di Caporetto, vi rimando non senza commozione a una indelebile pagina di Luigi Meneghello, nella quale il "brombólo" oscilla su uno di questi monumenti a imperitura memoria dei nostri eroi di guerra.

I brombóli muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiano un po' sempre, sono esposti a un rischio continuo. Il brombólo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s'aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei paretoni bianchi. Il brombólo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s'addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.
Ricordiamo ancora con affetto i nostri brombóli migliori, e specialmente quello bravissimo che si chiamava Soga. Gli altri partivano sullo spigolo a destra, raggiungevano subito ZANELLA e VANZO, più raramente STERCHELE e SAGGIN, qualche volta anche i primi PAMATO; uno si spinse una volta fino in mezzo alle P che sono dieci, poi cadde, batté la nuca e morì in seguito all'infermeria.
Ma Soga si spostava subito vivacemente a sinistra, passava LAIN, passava LAPPO, e poi su: su per GALIZIAN, fratello di mia zia Lena, via per FESTA, dove già stentavamo ad arrivare per fargli sicurezza con la mano. Quando passava i due DESTRO, entrambi 16 maggio 1916, non ci arrivavamo più neanche in punta di piedi; scendevamo dalla base e stavamo semplicemente a guardare.
Era solo ora. Solo con DE MARCHI Antonio, classe '95, con l'altro DE MARCHI un anno più vecchio; solo col lampo del sole sulle roccette dove c'è CIMBERLE. Avevamo paura per lui, lo vedevamo salire lassù di riga in riga, pareva che non finissero mai. Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?
Si trepidava per Soga mandato così allo sbaraglio senza una vera ragione, piccolo lassù come un ometto che s'arrampichi sul Dente del Pasubio; come l'ultímo nome che si vede appena la in cima, AGOSTI Alessandro, zio di Sandro che rinnova il nome.
Di questi nostri brombóli ci fu un'epidemia nel 1598, onde fu murata nella chiesa parrocchiale una lapide: «Guastando li Brombóli le viti, la Comunità di Malo, fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubio di celebrare ogni anno li XVI Maggio solennemente la sua Festa, fu liberata...»
Questo registra il Maccà; aggiungo che attaccati a un filo e roteati nell'aria, anzitutto li Brombóli si sottraggono alla vista e si dissolvono in un cerchio vaporoso, come marroni salbèghi analogamente trattati; in secondo luogo emettono un lamento vibrante, essi normalmente muti, forse in memoria del macello di S. Ubaldo.

Noi non li prendevamo sulle viti, come forse i nostri compaesani di tre o quattro secoli fa, ma sui morari, dove parevano more. Erano cari compagni di scuola; ottima moneta; innocui, lenti, sonnacchiosi. Pareva incredibile che fosse una virtù sterminarli, com'era invece sottinteso.

(Luigi Meneghello, da “Libera nos a Malo”, pag.61 e 62 edizione BUR Rizzoli)

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